L’Eritrea si racconta – una testimonianza

“Anche solo testimoniare è importante, me lo ero scordato.

Témoigner c’est encore traduire, c’est mettre en mots des vécus »

Riporto quello che ho potuto, saputo, annotare sul mio taccuino in occasione dell’evento organizzato dalla Casa Internazionale delle donne

Link all\’evento

L’ERITREA SI RACCONTA

Roma, Teatro Valle Occupato

Lunedì 11 novembre 2013, ore 19.45

La serata comincia con un collegamento via Skype fra Ribka Sibhatu (1) e il sindaco di Lampedusa, Giuseppina Maria Nicolini. Lei parla dei rapporti istituzionali, della visita del Ministro Mauro a Lampedusa, della manifestazione del 3 Ottobre scorso, e della promessa fatta dalla delegazione di Mauro che una parte dei “superstiti” saranno trasferiti a Roma entro il 15 Novembre.

Il loro dialogo finisce con queste parole :

Ribka : “… alla manifestazione del 3 Ottobre, ci siamo sentiti amati….. “

Sindaco : “… fanno più rumore quelli che non amano….”

Ribka : “…il pesce puzza dalla testa…”

Applausi.

E poi, grande frustrazione perché riesco a catturare solo alcuni brani dalle labbra di Ribka, che ci regala un suo Aulà, bellissimo :

“… la pioggia è figlia delle nuvole……siamo fratelli…. È ingenuo fidarsi troppo della vita……… ma amarsi in vita è l’antidoto della morte, cancella la fragilità umana………..”

Applausi, Emozione, Commozione.

Ribka ci presenta il musicista eritreo, un musicista conosciuto, una personalità, di nome Pap.

Ed ecco Ribka, a presentarci A. : 21 anni, non più ragazzo ma già uomo. Un corpo esile. Eppure si indovinano i muscoli, la forza di un fisico asciutto ma resistente che si è forgiato in questi anni. Prende il microfono, in piedi davanti a tutti noi. Il berretto multicolore in testa. Il viso un pò teso, ma con un sorriso che andrà crescendo nel corso del suo racconto, che andrà rilassandosi mentre pian piano si libererà del suo peso, e pian piano disegnerà e metterà in chiaro il percorso che lo ha portato fin qui :

“Come tutti i miei fratelli sono partito. Nel 2008 sono partito, ho attraversato il deserto eritreo per arrivare in Sudan, a Cassala, e poi sono stato trasferito in un campo di accoglienza. Ho continuato verso Khartoum e poi dopo più di 20 giorni sono passato in Libia, entrando a Tripoli nascosto in un camion di pecore. A Tripoli quelli come me sono accolti da trafficanti : passi il cancello grande di ferro e scegli da quale trafficante andare…. Poi c’è la spiaggia, e la barca. Anzi non era una barca ma un gommone di 6 metri per 3 che trasportava noi, 82 persone, con bambini e donne incinte. Dopo il primo giorno in mare, ci siamo fermati, probabilmente c’era un problema al motore… E poi è salito il nervosismo, e siccome c’erano sia Eritrei che Nigeriani, il nervosismo si è trasformato in rissa e c’è stato il rischio di finire affogati in acqua. Ad un certo punto è passato un pescatore. Ma i pescatori, si sa, non ti aiutano perché hanno paura di essere accusati poi. Questo pescatore che passava, la settimana prima aveva pescato nella sua rete… un donna morta con il bimbo!! Insomma questo pescatore mi ha salvato e mi ha portato fino ad Agrigento, e poi sono andato a Palma di Montechiaro in una struttura chiusa. Ma da lì sono scappato fino a Roma dove sono andato in un centro di accoglienza per minori. Qui a Roma, mi hanno aiutato a studiare. A me piace l’italiano e la musica; ho imparato a suonare la kora”.

Ribka : “Raccontaci meglio di come sei scappato dall’Eritrea…”

A. :

“Io sono nato in Arabia Saudita e sono vissuto lì fino alla quinta elementare. Dopo l’indipendenza, la mia famiglia è ritornata in Eritrea, ma ho avuto problemi a scuola perché avevo studiato in arabo e quindi dovevo ricominciare quasi da zero. E poi era uscita una nuova norma in quinta elementare : vengono nelle scuole e prendono i ragazzi più alti per il “servizio”, in realtà è il “servizio di schiavitù” (sarebbe un servizio militare pagato 30 euro al mese).

Ma io, ho perso i miei fratelli fra il 1998 e il 2000, a causa della guerra. Mia madre era preoccupata e voleva che io studiassi. Mi diceva sempre di non farmi notare. Ma poi un giorno ho fatto un pò un casino e il professore mi ha mandato via e mi ha ritirato la tessera dello studente. Quindi sono venuti ad arrestarmi a casa e mi hanno fatto salire su un furgone con altri, e siamo partiti in mezzo alle montagne. Nel posto dove ci hanno portati non c’era acqua pulita, e gli ultimi arrivati vanno a vivere in un contenitore “sotto terra” con altre 90 o 100 persone, e poi dopo qualche tempo si ha diritto ad andare in tenda.

Avevo 14 anni.

Dopo una settimana, ci hanno fatto uscire per andare a raccogliere la legna. Meno male uno dei comandanti era un ragazzo del mio quartiere, un pò più grande di me. Mi ha detto “Ti aiuterò a scappare, per andare in un’altra città, o in Etiopia, o in Sudan”. E con me, altri tre, erano pronti a scappare. Ci siamo messi d’accordo : dovevamo rifiutarci di lavorare, per essere puniti, e così il mio amico ci avrebbe lasciati scappare. Siamo scappati nelle montagne lungo un fiume. Si sapeva che se scappi e se ti sparano, le iene vanno nella direzione dello sparo. Allora il mio amico sparò nella direzione opposta a quella che prendemmo noi. Ma dovevamo anche fare attenzione a non incontrare civili che fossero anche spie. Meno male la gente delle montagne conosceva molto bene mio padre, ed io parlo il tigrino e quindi ci aiutarono e in 3 giorni sono riuscito a tornare a casa. Ma anche nel quartiere mio, c’era una donna che faceva la spia e mia madre era molto diffidente. Quindi mia madre andò di nascosto a vendere il suo oro e mi disse che dovevo scappare in Etiopia.

Ed è così che, a 15 anni, mi misi in marcia, attraversai l’Eritrea per raggiungere il Sudan…

Ma io non conoscevo niente, non sapevo niente del mondo!

Arrivato ad Asmara mi domandai come avrei fatto da solo : “ma dove vado da solo?” Perché dovete sapere che c’erano dei controlli dappertutto. Per fortuna incontrai un vicino di casa che era militare ma era scappato anche lui. Voleva rivedere la sua famiglia prima di andarsene via dall’Eritrea, e quindi lo aspettai qualche giorno. Finalmente decidemmo di uscire da Asmara e, per superare i posti di controllo, ho fatto finta di essere pazzo, malato… capite ? Ma non ha funzionato, non ci hanno lasciato passare. Allora abbiamo inventato un’ altro sistema : il mio amico aveva comprato due biglietti di autobus, lui era salito sul bus e io ho superato il posto di blocco a piedi da lontano, poi sono salito sul bus dopo che lui aveva anche dato una mancia all’autista. Eravamo diretti a Keren dove avevo una zia : ma questa non ha voluto riceverci, aveva troppa paura. Allora abbiamo dormito fuori sui sedili di un vecchio carro armato. L’indomani ci siamo incamminati verso Hagaz. Lui aveva infilato il suo vestito militare e abbiamo fatto finta che io ero il suo prigioniero. Abbiamo passato la notte in mezzo ai cammelli, perché sapete che per dormire i cammelli si mettono in cerchio e si tengono per la coda. Il giorno dopo siamo riusciti a farci dare un passaggio da un signore che andava a Barentu, con il suo piccolo furgone. Io facevo finta di essere il “fattorino”, quello che fa pagare i biglietti così evitavo di farmi controllare io stesso. A Barentu c’è il posto di controllo più terribile di tutta l’Eritrea, e io avevo molta paura, e il soldato lo aveva notato ma non è successo niente. Fine dei controlli. Poi siamo arrivati nella caserma….”

A. si interrompe perché Ribka ad un tratto si rende conto che c’è un signore nella sala che sta facendo un video. Scena di rabbia e parole dure, perché una testimonianza come quella di A., se viene fatta pubblica, mette in grave pericolo tutta la sua famiglia che è rimasta lì. Il signore si scusa. Qualcuno nel pubblico dice che bisogna fargli cancellare tutto. Lo fa. Fine della scena.

“…Infine siamo arrivati nella caserma di Sawa ed io faccio finta di essere un soldato : ero riuscito ad avere il permesso di un altro ragazzo con una foto che mi somigliava. Nel campo, ho ritrovato molti amici con cui avevo studiato. E poi il giorno dopo, parto, e vado in direzione del Sudan. La strada è lunga, c’è il deserto. Posso scegliere fra un percorso di solo 8 ore ma con il rischio di incontrare delle guardie di frontiera o la strada più lunga attraverso il deserto. Ma anche nel deserto ci sono dei pericoli, ci sono persone pericolose, e quando le ho incontrate ho fatto finta che ero io a fare i controlli quindi hanno avuto paura di me e mi hanno lasciato in pace. E finalmente sono arrivato in Sudan. E poi da lì, verso il mare, come ho già detto.”

Ribka : “Ma poi come lo vedi il tuo futuro? Cosa vuoi fare da grande, ? Cosa stai studiando adesso?”

A.:

“Io studio per il titolo di Dirigente di Comunità. Ma voglio tornare nel mio paese e fare politica”.

Pausa. Applausi. Sorrisi e tensione.

Poi la testimonia di un altro uomo. Si chiama B. Ex giornalista di Al-Jazeera. Uno che era andato in Libia con un falso passaporto sudanese…. Comincia con queste parole, mani in tasca, lacrime negli occhi :

“Volevo dirvi, l’unico motivo per il quale un uomo scappa dal suo paese, l’unico motivo è la dittatura”.

Sono dovuta andare via, lui ha continuato la sua storia, credo che parlasse di come aveva aiutato molte donne eritree a partorire in Libia, facendo finta ogni volta di essere il loro marito perché loro non avevano i documenti in regola…..

Mentre risalivo fra le poltrone del teatro, l’ho sentito dire che una volta, alla donna gli era morto il bambino appena nato e che non avendo i documenti in regola, non poteva dare sepoltura a suo figlio nel cimitero libico, quindi lui si era proposto di tenere la piccola salma per tre giorni a casa sua finché non è riuscito a trovare una soluzione…. ho varcato la soglia del teatro in quel momento, il cuore in gola.

Ho respirato l’aria fresca della sera, ho pensato che vivo a Roma, e ho deciso di tenere per sempre il sorriso di A. nel mio cuore (2). Ho pensato che anche solo testimoniare è importante (3), me lo ero scordato.

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(1) Ribka Sibhatu è nata ad Asmara, in Eritrea. È laureata in Lingue e Letterature Straniere all’Università “La Sapienza” di Roma, presso cui ha anche conseguito il dottorato di ricerca in scienze della comunicazione. Esperta di immigrazione, dal 1992 si occupa di mediazione interculturale in tutta Italia, presso scuole pubbliche, enti e associazioni. Ha pubblicato Alì e altre storie (Rai, 1998), Cittadini della poesia (Loggia dei Lanzi, 1998), Il cittadino che non c’è. L’immigrazione nei media italiani (Edup, 2004); sue poesie sono state pubblicate in AA.VV, Scritture migrate (Sinnos editrice, 2008), Aulò, canto-poesia dall’Eritrea (Sinnos, 2009).

(2) \”Témoin d\’un récit\”, de Silvia G., poème inspiré au témoignage de A.

(3) Lire : Les Érythréens de Léonard Vincent, éd. Rivages, 2012.

–  ARTICLE A LIRE  : Omar et la mécanique du monde (par Léonard Vincent), sur le site d\’Olivier Favier

 

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